12 mar 2009

Dopo qualche giorno di "normalità" ecco lì arrivare qualcosa che merita particolare attenzione....


Ecco quindi una parte di un testo che a qualcuno potra' sembrare opportuna. Un abbraccio e un sincero in bocca al lupo.




"L'abbandono e la polvere nera' di Maria Serena Maiorana

Passato.
Non c’era nulla che potesse non piacere. Semplicemente bastava il sole e quel motorino sgangherato a farci sentire felici. Semplicemente. Bastava.
Ora non basta più nulla.
Ormai sono passati molti anni da quando capii la differenza, tra ciò che è stato e ciò che sarà, tra ciò che accade e ciò che sarebbe potuto accadere. Ora però che tutto è successo parlarne non serve più a nulla.

Il segno, tremulo, ancora mi riga la testa. Sarà stato che non era il momento. Sarà stato che non ero bambina.

Ancora oggi però ricordo il profumo dei gelsomini appena arrivava maggio. Ricordo la nuvola bianca e densa di fiori nel cortile di dietro, quello vicino all’aula magna. Ricordo l’agave più grande che io abbia mai visto, sempre lì nello stesso cortile. Ho ancora una foto di me, minuscola, accanto a quell’agave, la conservo da allora.

Il mio posto preferito però era un altro, il primo chiostro, quello all’ingresso. Il mese perfetto al contrario era sempre lo stesso, maggio. Perché a maggio c’era un albero, e fioriva. E dopo aver fiorito spargeva i suoi petali fucsia in terra. E per tutto maggio i petali continuavano a cadere. E forse cadono ancora. Tutti gli alberi fioriscono a maggio. Tutti o quasi tutti. Mi piaceva però guardare quello.

Perché i suoi petali cadevano, lenti. E organizzavano un tappeto colorato, in fondo.

C’era qualcosa di orientale in quell’albero. Sarà stato che era quasi sempre spoglio, solo, minimale. Solo lenti petali fucsia, a maggio, che scivolavano giù.

Ci sono sempre dei petali che cadono in Giappone, e forse anche in tutto l’oriente. Chissà se esiste qualcuno che non ha quest’idea di quei luoghi, che non li immagina come ce li hanno fatti sempre immaginare con le porcellane cinesi. O ricordare, osservando un piccolo albero in un cortile universitario. Al monastero dei Benedettini, nel chiostro. A maggio.

A pensarci bene però c’era qualcosa di vagamente orientale in tutta Catania. Qualcosa che te la faceva sembrare equilibrata ed elegante anche nei giorni gialli e aspri, caotici e neri. Non saprei dire con esattezza cosa fosse. Forse la parlata cantilenante. I polli appesi sotto tende rosse ai mercati di quartiere. Alberi come quello, in giro per la città. O più probabilmente era la montagna. Sola e maestosa, l’Etna sembrava voler accogliere più che intimorire, con i suoi pendii dolcissimi e la sua faccia bianca bianca quando diventava inverno. Eppure è un vulcano che sempre fuma e gorgoglia. Enorme, immobile e gelosissimo.
Probabilmente era proprio la montagna, perché trasmetteva energia ed equilibrio. E perché, a pensarci bene, sembrava quasi il Fujiama.

Catania non era l’oriente però. E te ne accorgevi subito perché il suo mare è anche quello africano. E perché è fatta del nero più nero. E laggiù sembra quasi che la pietra lavica sia l’unico modo che gli uomini conoscono per costruire il mondo. Anche quella colata di nero però a tratti può rompersi.
Scheggiata dal sole giallo e troppo forte. Tarlata da morbide decorazioni barocche scolpite col tufo chiaro. E pare quasi che il bianco voglia sorprenderti, ad un tratto. Come il merletto gonfio che salta fuori dalle gonne di signore d’altri tempi. Come il sorriso dell’ambulante di colore. Come spruzzi di panna montata su un fondo spesso di cioccolata amara.

È che fa caldo
Basterebbe respirare
E anche se piovesse
Mancherebbe l’aria.

Presente.
Ormai è da ore che aspetto, battendo nervosamente il dito indice sul banco, vuoto.
Quaderni e libri neanche ne ho, e nemmeno ne avrò più. Gli esami sono finiti da tempo, anche il viaggio post-laurea ormai è passato. E già mi stanco di aspettare. Intanto resto sola.

Ormai è da oltre un mese che mi sento pronta, eppure non arriva nessuno.
Nessuno che mi dica fa freddo.
Nessuno pronto a riscaldarmi.
Solo questo vorrei
Per potermi addormentare tranquilla.


Ed invece non arriva mai nessuno.
Mai, e neanche questa volta. Così batte isterico il mio indice su quel banco, vuoto. Batte mentre le note del cielo diventano nere, diventano notte. Batte mentre professoresse di mezz’età color biondo finto lasciano le loro stanze portando ampie borse di pelle morbida. Batte mentre l’ultimo studente, dopo aver letto l’ultima pagina aspetta l’ascensore troppo lento – arriva? Non arriva? Si apre? Non si apre? – per riposare gli occhi sul divano di casa. Batte fino a quando il guardiano vestito di blu arriva e mi dice: stiamo chiudendo, cinque minuti. Allora chiudo il banco, vuoto, e vado via.
Per fortuna ho ancora le unghie laccate di rosso.


Non sono molti gli smalti che resistono ai maltrattamenti isterici e nervosi. Rosicchiare una pellicina. Grattar via un po’ di colla secca dal banco. Battere nervosamente su quello stesso banco le dita. Anzi l’indice. Dalla parte dell’unghia. Eppure lo smalto resiste.

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Lui era allergico agli alberi di ulivo. Che strano essere siciliano e allergico all’ulivo. Come un boscaiolo allergico alla corteccia, come un pizzaiolo allergico alla farina. Semplicemente mi sembrava impossibile, o perlomeno innaturale. I limoni e le arance color sangue, l’estate, la mattina, la granita, le mandorle i pistacchi e la calia delle feste di paese, le luminarie, le vare portate a spalla, le pescherie all’aperto, i mercati, la parmigiana di melanzane, la ricotta, i cannoli e le cassate, la malvasia, i capperi il basilico e la frutta martorana, il giorno della vendemmia, la festa di San Martino, le sagre, il mare, il mare, il mare, e gli ulivi a perdita d’occhio. A nessun siciliano doveva esser permesso di essere allergico a niente di tutto questo. A nessuno. Eppure lui lo era. Semplicemente mi sembrava impossibile. O forse, meglio, innaturale.


Mi hanno raccontato che esistono luoghi fatti apposta per innamorarsi. Io non sono mai stata tra le gondole aguzze e le acque languide di Venezia. Non ho mai vissuto le tiepide notti romane, quando cammini in punta di piedi per non disturbare quel sogno che sta riposando all’ombra delle cose più belle. Eppure so che esistono certi luoghi fatti per le carezze, per la passione morbida, quando ti sorprende. Posti fatti per incorniciare tutto, per diventare languore. So tutte queste cose perché me le hanno raccontate. Me le hanno dette. Eppure non mi sento sincera, perché non le conosco, quindi forse non potrei dirle. Eppure le dico.

Io ho vissuto solo Catania, e Catania non è fatta per l’amore. E la mia storia è ambientata a Catania. Quindi – e non dovrebbe esserci bisogno di dirlo – non aspettatevi nulla. Anche se sono sola nel centro della sera, persa in questa città che si chiama Catania, accompagnata dai passi che mi porteranno a casa. Anche se sono una che aspetta, ogni giorno, battendo nervosamente l’indice su un banco, vuoto. Fossi dentro un romanzo vero, scritto su pagine spesse, accadrebbe sicuramente qualcosa. Accadrebbe ora. Ma Catania non è fatta per l’amore. Questa città è piena di ferite, e l’amore non necessita di altre ferite, tranne quelle che riesce a procurarsi da solo.

Ed allora forse la stupida sono stata io, forse lo sono ancora. Questa città ti riempie la casa di sabbia nera e non ti regala niente. Anche se ti ostini a laccarti ogni giorno le unghie di rosso. Anche se ti ostini a scegliere abiti a fiori. Ed anche se sei disposta ad aspettare, ferma ogni giorno. Seduta in un banco nell’unico posto in tutta Catania in cui pare possibile l’amore. Al monastero dei Benedettini, a maggio.


Il segno, tremulo, ancora mi riga la testa. Sicuramente non era il momento, non lo era quando sono caduta.


Ricordare forse non serve. Forse neanche servirà. Soprattutto ora che ricordare diventa difficile, ora che tutto è sbiadito, ora che anche quell’albero è rimasto solo, a spargere i suoi petali colorati – ci mancava solo la ristrutturazione del chiostro –. E chissà quanti abbracci hanno perso l’occasione di accadere nel loro luogo esatto. Chissà quanti abbracci hanno dovuto sporcasi di sale e carbone. Chissà quanti, in fine, hanno dovuto sciogliersi. E molti altri si scioglieranno domani. Per fortuna l’enorme agave resiste restando immobile anche se la nuvola di gelsomini ha iniziato a sgonfiarsi, e molte persone ancora passano il loro tempo qui, in questi luoghi. Ed anche loro forse non sanno, come me allora. Molte ragazze, molti ragazzi, con le borse piene di fotocopie sgualcite. Al collo sciarpe colorate anche se la primavera è matura e a Catania comincia a far caldo. Lana per l’inverno, garza per l’estate, comunque colorate. Il sole è rimasto caldo nel cortile principale, nonostante il passare degli anni. Il legno delle panchine è ancora chiaro e dalle bacheche sventolano anche oggi improbabili fogli di collettivi rossi, neri e stinti. Sventolano e fanno sfoggio di simboli sepolti dalla storia molto prima che nascessero i ragazzi e le ragazze che li hanno stampati. Ancora oggi a molti sembra impossibile superare inglese – ma secondo lei perché mi sono iscritta a lettere? –, ancora oggi a molti gli esami sembrano lontani, ed invece sono vicini. Ed ancora oggi in molti si saranno ripromessi di conoscere meglio il monastero – ma da dov’è che si scende nelle cucine? –. Ma non oggi, non ora, che devo scendere in fiera a comprarmi le calze, e non oggi, non ora, che la professoressa ha il ricevimento e poi la macchinetta si è inceppata ed adesso ho solo bisogno di un caffè, e non oggi, non ora, che i ragazzi mi stanno aspettando al ponte per ripetere, e non oggi, non ora, che i corridoi sono pieni di ragazzini rumorosi in visita a quella cavolo di mostra al primo piano, che neanche so di che cos’è e già comincio ad innervosirmi. E non oggi, non ora, che quella sconosciuta vestita a fiori e con le unghie laccate mi ha di nuovo fregato il posto in aula studio per non far nulla, e adesso mi sa che me ne torno a casa.


Eppure lo sai, non è colpa sua. Il segno, tremulo, ormai le riga la testa da quando proprio non era il momento. Da quando lei quel giorno è caduta.


Io vorrei aspettarlo nel cortile, ma adesso gli ulivi sono già fioriti. E quando tornerà non voglio vederlo avvicinarsi con gli occhi arrossati ed il naso che gli prude. Lui è allergico agli ulivi, e almeno questo glielo devo evitare. Ma ora, mentre sono sola in strada di ritorno a casa, e già si è fatta sera, ho le mani fredde e fretta di tornare a casa. E prima mi addormenterò, prima sarà domani. E forse è importante che io ci sia ancora, sempre lì, nell’unico luogo di Catania in cui sia possibile l’amore. Al monastero dei Benedettini. A maggio. Non nel chiostro però, il chiostro è in ristrutturazione. E chissà quanti abbracci hanno dovuto sporcarsi di sale e carbone. Chissà quanti, infine, hanno dovuto sciogliersi. E molti altri si scioglieranno domani.



Futuro.
Capita a volte di amare qualcuno più di ogni altro. Qualcuno o qualcosa. Che stranezza, in fondo, scegliere quel qualcosa in un marasma di mille altre. Che stranezza in fondo. Scegliere quell’individuo, o quel luogo, o quel colore, solo quello. Fare la propria scelta, con esattezza, che difficoltà. Precludersi il resto. Scegliere di non sentirlo, di non vederlo. Di non tastarlo.
Di non annusarlo.
Essere certi che altrimenti sarebbe peggio.
Se ci pensi, che stranezza in fondo.

Sembra tanto strano che viene voglia di non arrendersi. Di non lasciarsi andare. Di restare disperatamente noi stessi. Perché io voglio amarti ma non oggi, non ora, che devo scendere in fiera a comprarmi le calze, e non oggi, non ora, che la professoressa ha il ricevimento e poi la macchinetta si è inceppata ed adesso ho solo bisogno di un caffè, e non oggi, non ora, che i ragazzi mi stanno aspettando al ponte per ripetere, e non oggi, non ora, che i corridoi sono pieni di ragazzini rumorosi in visita a quella cavolo di mostra al primo piano, che neanche so di che cos’è e già comincio ad innervosirmi. E non oggi, non ora, che devo andare di corsa, anche se siamo in una tiepida notte romana e i sogni starebbero riposando all’ombra delle cose più belle se io non mi ostinassi a disturbarli con i miei passi veloci. Anche se le acque sono languide, anche se siamo a Venezia su una gondola aguzza. Perché comincia a fare tardi, e ci si comincia a stancare. O ad impaurire. Fa lo stesso.


E se il segno, tremulo, mi riga la testa. Se gli altri mi credono pazza. Se un giorno io sono caduta. Domani tutto ciò cambierà perché tu arriverai.


Ma forse non è stato quel segno. Forse è stata la notte cattiva. È stata Catania la nera. Catania non è fatta per l’amore. Questa città è piena di ferite, e l’amore altre ferite non ne vuole. Sarà per questo che ogni giorno mille abbracci si sciolgono. Sarà per questo che si è sciolto il nostro. Sarà per questo che me ne sono andata via.

Ora però so che ci sono posti che sono fatti per l’amore. E so che tra questi ce n’è anche uno nostro. Ed è lì che ogni giorno io ti aspetto. Al riparo dalle ferite e dagli ulivi, che quando fioriscono ti fanno star male. E purtroppo non potremo prendere il sole nel chiostro – sai, lo stanno ristrutturando – , e non potremo guardare quell’albero spoglio che sparge petali colorati. Ma ci sarà ancora l’agave, i gelsomini, il legno chiaro delle panchine e tutto il resto. E non avrò paura e non mi stancherò. Ed anche se tutti intorno correranno su passi che fanno rumore, ed anche se la sabbia nera entrerà in casa nostra e la macchinetta del caffè si incepperà ancora una volta, lo smalto resisterà ed io sarò bellissima come allora. Perché anche Catania a volte può sembrare l’oriente, con i suoi petali che cadono e la sua parlata cantilenante e i polli appesi sotto tende rosse ai mercati di quartiere. Ed il bianco ci sorprenderà, ad un tratto. Come il merletto gonfio che salta fuori dalle gonne di signore d’altri tempi. Come il sorriso dell’ambulante di colore. Come spruzzi di panna montata su un fondo spesso di cioccolata amara.


Tu sei il mio porto. L’acqua che mi disseta quando a mare sono sola su una spiaggia che prosciuga. Sei il traguardo che aspettavo da quand’ero bambina (i tacchi alti, un rossetto rosso tutto mio… ). Sei il mare che mi si agita dentro quando ne ho bisogno. Sei la notte che mi accompagna. Sei la mia mano, la tua mano. Sei il pane che essa spezza per la mia.
E quando non ti vedo, quando non ti sento. Quando non ti annuso.
Io manco.
Ed è per questo che, domani, IO ti aspetterò.


Ti aspetterò mentre le note del cielo diventeranno nere, diventeranno notte. Mentre professoresse di mezz’età color biondo finto lasceranno le loro stanze portando ampie borse di pelle morbida. Mentre l’ultimo studente, dopo aver letto l’ultima pagina aspetterà l’ascensore troppo lento – Arriva? Non arriva? Si apre? Non si apre? – per riposare gli occhi sul divano di casa. Ti aspetterò finchè il guardiano vestito di blu non mi dirà: stiamo chiudendo, cinque minuti.

Ti aspetterò. E tu arriverai.

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Grandissima forza occorre in determinati momenti, ma certamente tale forza non va cercate nè tantomeno perseguita, essa e' dentro di te, devi solo focalizzare ciò di cui necessita per sentirsi a suo agio e dar sfogo dentro il tuo cuore.

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